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Comuni sciolti per mafia, da inizio anno già 12

A oggi sono dodici i consigli comunali italiani sciolti per mafia nel 2018. Una misura che dovrebbe avere “carattere straordinario” e la cui frequenza conferma invece quanto le nostre amministrazioni pubbliche siano permeabili ai condizionamenti delle organizzazioni criminali.


di Maria Concetta Tringali

L’anno si è aperto con il comune di Cirò Marina, commissariato a gennaio. Nella giornata del 26 aprile, è toccato a Manduria, Caivano, Limbadi, Bompensiere e Platì. A oggi sono 12 i consigli comunali sciolti per infiltrazioni mafiose nel 2018. Il 2017 ha chiuso a 20. Nella gran parte sono comuni della Calabria, seconda per statistica solo alla Campania. I dati raccolti da WikiMafia Libera Enciclopedia sulle Mafie contano 302 consigli comunali commissariati dal 1991 – anno di istituzione della misura – al 2018.

Tecnicamente lo scioglimento è disposto con decreto del Presidente della Repubblica ed è il Testo Unico degli enti locali, all’art. 143, a definirne cause e iter. È il prefetto a dare l’avvio all’accesso e agli accertamenti sull’ente, con la nomina di una commissione d’indagine. I casi sono quelli in cui sussistano concreti, univoci e rilevanti elementi su collegamenti diretti o indiretti degli amministratori con la criminalità organizzata di tipo mafioso o similare. Devono essere forme di condizionamento importanti, in grado di determinare le decisioni degli organi consiliari; di compromettere il buon andamento e l’imparzialità delle amministrazioni, nonché il regolare funzionamento dei servizi ovvero di arrecare un grave e perdurante pregiudizio alla sicurezza pubblica.

Il numero dei comuni commissariati negli ultimi anni, seppure non tocchi il picco dei 34 registratosi nel 1993, è comunque indice di una grande permeabilità. Il dato va letto insieme alla ricorrenza del medesimo provvedimento di scioglimento nella vita politica delle singole amministrazioni.

Platì, ad esempio. Il comune della locride ha conosciuto ben sedici gestioni commissariali dall’inizio del '900 ed è questa la quarta volta in cui sconta una chiusura per mafia dal 1991 (dopo il provvedimento del 2006, quello del marzo 2012 e la proroga del 6 agosto 2013). La Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie, nell’ultima Relazione sulla situazione dei comuni sciolti per infiltrazione e condizionamento di tipo mafioso, riconosceva già nel 2016 in Platì, "unitamente ai vicini San Luca ed Africo, il cuore storico e culturale delle organizzazioni criminali calabresi".

Sono passati anni, ma sul territorio la cosca al vertice è tuttora quella dei Barbaro, detti i "Castanu", da sempre in affari nei sequestri di persona a scopo di estorsione, nel controllo degli appalti pubblici e nel traffico internazionale di stupefacenti. Ma la ‘ndrangheta, come la mafia, ha una storia di espansione e quella di Platì a metà anni Settanta è in viaggio verso il Nord dove allarga le maglie dell’attività sino a Buccinasco, alle porte di Milano, con le famiglie dei Papalia e dei Sergi. I forti condizionamenti nella vita pubblica del comune calabro lasciano segnali facilmente riconoscibili. Si pensi alla legge che dal 1996 consente di confiscare i beni della criminalità per ricondurli alla disponibilità pubblica e sociale. Nella locride, la Commissione antimafia dice che quei beni sono rimasti per la gran parte mai recuperati né utilizzati in concreto e le famiglie mafiose nemmeno spogliate del possesso di terreni e proprietà, malgrado i provvedimenti definitivi. Ma c’è anche di più. A guardare l’attuale sezione Amministrazione Trasparente del sito dell’ente, ci si trova dinanzi al Piano Triennale Anticorruzione per gli anni 2017-2019. Il documento al punto 10 prescrive la formazione per i dipendenti. È misura di carattere generale, rivolta in particolare a chi opera nelle aree a rischio corruzione, ma più in generale a tutto il personale. La relazione del 2018 che serve a verificare, tuttavia, rileva un dato significativo. In effetti quegli adempimenti sono rimasti lettera morta. Le motivazioni, eloquenti: "perché l'Ente non ha ritenuto fondamentale erogare la formazione". E, questo, a pochi mesi dall’ultimo scioglimento del consiglio.

Nicola Gratteri, magistrato antimafia, è convinto che sia in corso da almeno venti anni un processo di espansione della ‘ndrangheta nell'Est europeo. E l’assassinio di un giornalista slovacco, Jan Kuciak avvenuto nel febbraio di quest’anno, pare confermarlo.

Certo, perché in Calabria come nel resto d’Italia e d'Europa chi prova a raccontare la mafia rischia la vita. Per i dati, resi noti da Reporters sans Frontières sono circa 196 i giornalisti italiani sotto scorta nel 2017.

L’altro comune calabrese sciolto per mafia è Limbadi, nel vibonese. Qui il 9 aprile scorso è saltato in aria su un’autobomba Matteo Vinci, biologo quarantaduenne. Un fascio di girasoli deposto sul luogo dell’esplosione e poi una fiaccolata per le vie del paese, il segno del dolore e della reazione della comunità che non si riconosce nelle leggi della ‘ndrangheta. Matteo Vinci ha pagato con la vita, secondo le dichiarazioni dell’anziana madre, il coraggio di avere difeso le terre di famiglia dalle mire dei Mancuso. Ma non è forse tutto lì, il senso di quell’attentato. C’è anche la politica che, quando è esercizio di cambiamento, può diventare detonatore. Il giovane era, infatti, candidato alle scorse elezioni comunali con la lista Limbadi libera e democratica che fino allo scioglimento del consiglio era gruppo di minoranza.

E se per Limbadi si tratta del secondo scioglimento per infiltrazioni mafiose, sono invece al primo decreto i restanti tre comuni coinvolti nei provvedimenti di questo fine aprile.

Caivano è nome che ricorre quando si parla di sversamento dei rifiuti tossici. Le indagini sulla terra dei fuochi non sono le sole però che abbiano toccato il centro del napoletano, negli ultimi anni. Qui, ad esempio, quando si scrive Parco Verde si legge l’opposto di un polmone urbano. È, piuttosto, una piazza di spaccio tra le maggiori, e non solo d’Italia. È gestita dal clan Moccia. A capo della consorteria c’era fino alla sua morte, avvenuta lo scorso settembre, Anna Mazza, la moglie del capofamiglia assassinato a metà degli anni Settanta, che è la prima donna che abbia subito procedimenti penali per reati di mafia. La zona nata nel post terremoto del 1980 è diventata nel tempo un orizzonte stabile di palazzoni di cemento, passando da soluzione temporanea, pensata per gli oltre duecentomila sfollati, a ghetto di periferia. In quei condomini storie di droga e di bambini violati. Nell’estate del 2014 moriva tra quelle case Fortuna Loffredo, sei anni, precipitata giù dall’ottavo piano; da un’altra finestra, l’anno prima toccava al piccolo Antonio Giglio. Due vicende di abusi che vedono oggi imputato lo stesso uomo, accusato di omicidio dopo ripetuti atti di violenza e pedofilia.

Ancora in Puglia, commissariato il consiglio comunale di Manduria. Nell’agosto dello scorso anno si era concluso con un’archiviazione l’iter avviato dal Ministro Minniti, che invece, questa volta, ha portato al decreto di scioglimento. All’origine, la cosiddetta "Operazione Impresa", l’inchiesta mafia-politica condotta dalla Direzione Distrettuale Antimafia che tra Lecce e Taranto ha coinvolto 60 indagati e notificato 27 misure cautelari, arresti per presunti legami con la Sacra corona unita.

E, poi, in Sicilia. Bompensiere nel nisseno, nemmeno 600 abitanti. Qui sono stati scandagliati dieci anni di appalti pubblici, documenti e transazioni, lavori e servizi. Un accesso agli atti che si è concluso con lo scioglimento del piccolo comune per pesanti ingerenze della mafia.

Nella stessa riunione il Consiglio dei Ministri ha disposto la proroga, per una durata di sei mesi, del commissariamento dei consigli comunali di Casavatore e Crispano, nel napoletano. "In ragione della necessità di proseguire l’opera di risanamento dagli accertati condizionamenti da parte della criminalità organizzata", si legge.

La Corte Costituzionale ritiene lo scioglimento dell'organo elettivo una "misura di carattere straordinario", lo definisce strumento che serve a "fronteggiare un'emergenza straordinaria" (Corte Cost., 19 marzo 1993, n. 103; C. Stato, VI, 10 marzo 2011, n. 1547). Ma il numero e la frequenza di questi provvedimenti ci dice, ahimè, che le infiltrazioni delle mafie nelle nostre amministrazioni non hanno nulla di eccezionale.

(30 aprile 2018)



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