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Di che cosa parliamo quando parliamo di impeachment

Aggiornamento: 18 lug 2018

Attacco al potere, si potrebbe titolare il racconto dello scorso 27 maggio. Domenica sera, le ore che erano seguite alle dichiarazioni di Sergio Mattarella erano state di concitazione. La giornata si era chiusa con una certezza: nessun esecutivo Lega – Cinque Stelle. Il Presidente della Repubblica mostrandosi pronto al piano b aveva convocato Carlo Cottarelli, il cui nome rimane legato al tentativo di spending review, abbozzato all’epoca del governo Letta. In questo frangente le reazioni non si erano fatte attendere.

È a quel punto che è ricomparsa la parola impeachment. Così, mentre il Leader del Carroccio incitava i suoi al voto sin da subito, la posizione dei pentastellati - con Di Battista rientrato per l’occasione sulla scena politica sono sembrate immediatamente dalle tinte anche più forti. Attorno al capo politico del M5S e alla base, infatti, si è spaccato il Paese. Non si è fatta attendere l’eco della Meloni. La scena si è divisa, infine, tra chi sta con Mattarella e chi, invece, vorrebbe metterlo sotto processo.

Il registro evoca d’impatto gli Stati Uniti d’America e gli scandali che hanno travolto presidenti del passato, Nixon e il Watergate innanzitutto. L’origine è retaggio antico legato all’impeachment britannico. In Italia la fattispecie trova la sua collocazione nell’art. 90 della Costituzione. La norma dice che il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento e attentato alla Costituzione. Due le ipotesi e tassative, peraltro, sulle quali misurare i comportamenti del Capo dello Stato.

Quali saranno le conseguenze delle determinazioni assunte in questi giorni di maggio dal Presidente della Repubblica si farà chiaro nelle prossime ore. Quello che sta accadendo è che siamo di certo dinanzi a un ampliamento della sfera di intervento del Presidente, allargamento che per maturare di solito ha bisogno di uno scenario ben preciso, quello delle crisi o delle fasi di stallo della politica dei partiti. Certi giuristiindividuano in quelle circostanze le ipotesi nelle quali al Capo di Stato andrebbe addirittura il ruolo di “decisore di ultima istanza”.

Ma il quadro dell’architettura costituzionale è certamente più articolato di così e ripartisce tra più organi la funzione di garantire la continuità dell’ordinamento. La Carta Costituzionale prevede, peraltro, un imprescindibile sistema di controlli incrociati tra poteri dello Stato, un reticolo destinato a operare anche o forse soprattutto nelle fasi di criticità.

L’impeachment si traduce nel nostro paese in una procedura complessa che fa capo a diversi organi costituzionali. A deliberare la messa in stato d’accusa del Capo dello Stato è il Parlamento in seduta comune. Serve che la decisione sia presa a maggioranza assoluta dei membri e con votazione segreta. Quella fase è preceduta da un’attività istruttoria che confluisce in una relazione, licenziata da un Comitato formato da parlamentari facenti parte della Giunta per le immunità di Camera e Senato entro il termine di 5 mesi, prorogabile di altri 3. Sono dunque le Camere riunite in un momento che è quello della più alta manifestazione dell’autonomia del Parlamento, a decidere. Il vaglio politico è sulla compatibilità o meno della condotta presidenziale con le attribuzioni conferite a quello dalla Costituzione.

L’iter sfocia in un processo a cui è chiamata la Corte Costituzionale che decide in una composizione allargata. La Consulta è infatti integrata quando debba giudicare la responsabilità penale del Capo dello Stato da 16 giudici aggregati, membri scelti tra i cittadini dotati dei requisiti di eleggibilità a senatore.

È, questo, uno dei casi in cui si parla di giustizia politica. Il riferimento è a quell’insieme di istituti che derogano alle comuni regole processuali. Si tratta di “apposite forme giurisdizionali configurate per giudicare illeciti penali che presentino una particolare coloritura politica”, si legge in un saggio di Adriana Ciancio, ordinaria di diritto costituzionale alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Catania che mutua la nota espressione da Mortati.

Nel nostro paese si contano solo due precedenti, l’uno sul finire degli anni Settanta e l’altro agli inizi degli anni ´Novanta. Era bastato aver ventilato la messa in stato d’accusa in entrambe le situazioni per giungere alle dimissioni del Capo dello Stato, minacciato di impeachment. Così, Giovanni Leone cadeva sullo scandalo Lockheed nel 1978 e Francesco Cossiga, invece, concludeva il suo mandato in anticipo di due mesi per la vicenda Gladio, nel 1992. Immaginare una procedura simile contro Mattarella dunque potrebbe risultare l’anticamera, tra le altre, di una soluzione di questo tipo.

Il giudizio, invece, laddove istruito sarebbe dagli esiti ovviamente riservati alle valutazioni dei giudici costituzionali. Capire se il Presidente si sia mosso all’interno dei confini delle sue prerogative ovvero abbia esercitato un potere di limitazione, controllo o indirizzo dell’azione politica con commissariamento - di fatto - dell’esito del voto di marzo, intanto. E poi verificare che quelle condotte rientrino o meno in uno dei due reati tipizzati dall’art. 90 della Carta. Ecco il compito devoluto alla Corte Costituzionale che decide con sentenza non impugnabile né soggetta a gravame, provvedimento che può comminare sanzioni penali, ma anche costituzionali, amministrative e civili. Nelle more, peraltro, può ben accadere che il Presidente venga sospeso dalla carica, con ordinanza cautelare emessa dalla Consulta.

Fin qui gli aspetti tecnici, ma le ricadute politiche di una simile procedura sono tutt'altro che prevedibili.

(28 maggio 2018) L'articolo è apparso su MicroMega. Troverete l'originale del pezzo al link che segue http://temi.repubblica.it/micromega-online/di-che-cosa-parliamo-quando-parliamo-di-impeachment/


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