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Femminicidio, rito abbreviato e giusta pena. Un dibattito che non si placa

di Maria Concetta Tringali

La notizia è di giovedì ed è uguale a molte altre. Titoli che rimane difficile rendere in maniera originale: «Sarà giudicato con il rito abbreviato l’assassino di Alessandra Madonna». La ragazza era stata uccisa a settembre del 2017 a Melito, dall’ex fidanzato.

Sono in agenda e saranno esaminate in questo scampolo di luglio le due proposte di legge che hanno la pretesa di incidere su vicende come quella di Alessandra.

L’una è a firma, tra gli altri, del deputato leghista Molteni che ripropone un testopressoché analogo a quello già approvato la legislatura passata; l’altra proviene dalla parlamentare Alessia Morani, Partito Democratico.

I progetti di legge sono rivolti a introdurre nell’ordinamento l’inapplicabilità del rito abbreviato limitatamente a certi giudizi.

Quello è un rito alternativo al dibattimento. Si caratterizza per la decisione che viene presa allo stato degli atti delle indagini preliminari che assumono quindi, in mancanza di una fase di cognizione vera e propria, piena valenza probatoria. È in tutta evidenza un procedimento volontario, a natura premiale. Se l’imputato non viene assolto, infatti, la scelta del rito produce un’automatica riduzione della pena nella misura fissa, appunto, di un terzo. L’ergastolo si riduce a trent’anni.

E nello specifico, è proprio con riferimento a quei delitti puniti con il massimo della pena che i provvedimenti all’esame della Commissione vogliono precludere la scelta del rito alternativo. Principalmente, si intende impedire al condannato di accedere allo sconto automatico della pena.

Come alla Camera, così al Senato sul tema è depositato un altro disegno di legge, a firma della piddina Caterina Bini, da maggio di quest’anno.

Ma il dibattito non è solo tra i tecnici del diritto. L’argomento solleva da tempo grandi echi nella società civile. E succede perché molti di quei giudizi riguardano appunto casi di femminicidio. I dati raccontano che viene uccisa una donna ogni due giorni; sono già più di 44, le vittime in questa prima metà del 2018. La violenza di genere non conosce confini geografici, né socio-economici; muoiono casalinghe come dirigenti d’azienda, in massacri dalla forma del tutto trasversale.

È indubitabile che attorno al fenomeno si coagulino sofferenze atroci e grandi frustrazioni. Intanto sono quelle dei familiari delle vittime che escono dalle aule di giustizia, il più delle volte, con la certezza amara che l’assassino non pagherà. E non è semplicemente una questione di rabbia e di vendetta, sentimenti anche comprensibili, se pure si provi a immaginare l’orrore. O, forse, non è solo quello.

Anche all’occhio attento del giurista, non può sfuggire come accada che la pena rischi spesso di non risultare equa, oltre che talvolta nemmeno certa.

Malgrado il nostro sistema sia improntato a principi di civiltà che ci riportano davanti all’esigenza di assicurare la rieducazione del reo, l’idea che la sanzione sia commisurata alla gravità del delitto è principio radicato nella nostra cultura giuridica ed è altrettanto irrinunciabile.

In ipotesi anche meno tragiche del femminicidio, nei casi di sfregio o deformazioni permanenti del volto, o in quelli di lesioni personali gravissime, la stessa Commissioneparlamentare d’inchiesta a marzo scorso, licenziando il testo della Relazione finale, aveva manifestato forti perplessità, certa che il ricorso alla premialità nella scelta del rito rendesse «assai concreto il rischio di pervenire a risposte sanzionatorie di scarso rilievo a fronte di reati dagli effetti devastanti sulla vita delle vittime».

Il tema appassiona anche i più alti scranni della giurisprudenza da anni. La Consulta ha da poco mutato orientamento, superando la pronuncia di incostituzionalità emessa nel 1991 – con cui travolgeva quella parte della norma che consentiva il ricorso al rito abbreviato proprio per i delitti puniti con l’ergastolo – per finire nel 2013 con una vera e propria inversione a U.

Il dibattito dunque riprende, anche davanti a questo Parlamento.

Dentro le mura di casa, nel mentre, si continua a morire. Zeneb, Teresa, Nadia, Paola, Nicoleta, Fernanda, Alexandra, Elisa, Silvana, Alfonsina, Antonietta, a loro - come ad Alessandra e a molte altre ancora - è toccato in questi ultimi mesi di riempire di nomi il lungo elenco che non riesce a trovare un punto di arresto.

(30 luglio 2018)

L'articolo è apparso su MicroMega. Troverete l'originale del pezzo al link che segue

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