La Corte d'Assise di Milano ha sospeso il processo e rinviato alla Consulta la decisione sulla vicenda di Marco Cappato, accusato di aiuto al suicidio di Dj Fabo. Un’occasione senza precedenti, che potrebbe finalmente aprire la strada all'abolizione di questo reato in Italia.
di Maria Concetta Tringali
È di ieri la decisione della Corte d’Assiste di Milano nel processo di primo grado a Marco Cappato, accusato di avere aiutato a morire il quarantenne Dj Fabo, in una clinica svizzera ormai un anno fa.
Non c’è stata condanna né assoluzione per l’esponente dei Radicali e tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni che ha assecondato la richiesta dell’uomo, cieco e tetraplegico per un incidente stradale dal 13 giugno 2014, rischiando fino a dodici anni di carcere per aiuto e istigazione al suicidio.
Mentre fuori dal Tribunale andava in scena l’ennesimo atto di un dibattito accesissimo, con gruppi perlopiù di cattolici contrapposti a sostenitori di posizioni radicali, la Corte decideva di trasmettere gli atti del giudizio alla Consulta e sospendere il processo.
E così i giudici della Corte d’Assise, in parziale accoglimento della tesi dei Pm Sara Arduini e Tiziana Siciliano (che nel maggio scorso si erano già pronunciate per l'archiviazione) che in requisitoria avevano concluso per l'assoluzione o, in subordine, per l'incidente di costituzionalità, hanno definitivamente investito la Consulta della questione richiedendo un vaglio di costituzionalità sull’art. 580 del codice penale.
“Deve ritenersi che in forza dei principi costituzionali all’individuo sia riconosciuta la libertà di decidere quando e come morire e che di conseguenza solo le azioni che pregiudichino la libertà della sua decisione possano costituire offesa al bene tutelato dalla norma in esame”, si legge nell’ordinanza.
Alla base del ragionamento, i nostri diritti, inalienabili principi di rango costituzionale.
“L’incriminazione di Cappato – è scritto ancora nel provvedimento che cita moltissimi precedenti, anche europei – è in contrasto e violazione dei principi sanciti agli articoli 3, 13, II comma, 25, II comma, 27 III comma della Costituzione, che individuano la ragionevolezza della sanzione penale in funzione all’offensività della condotta accertata”.
“Un’ordinanza di straordinaria completezza e giuridicamente impeccabile che ha fornito fortissimi elementi di valutazione molto importanti”, il commento della PM Siciliano.
Per l'associazione Luca Coscioni, questa è “un'occasione senza precedenti per superare un reato introdotto nell'epoca fascista” e consentire alle “persone capaci di intendere, affette da patologie irreversibili con sofferenze, di ottenere legalmente l'assistenza per morire senza soffrire anche in Italia, senza bisogno di dover andare in Svizzera”.
Adesso l’ultima parola sulla norma che punisce chiunque determini altri al suicidio, ovvero ne rafforzi o ne agevoli il proposito in qualsiasi modo, spetterà dunque al Giudice delle leggi.
Sotto la lente di ingrandimento però solo quella parte della disposizione che punisce l’agevolazione al suicidio, senza influenza sulla volontà dell’altra persona.
La pronuncia di incostituzionalità e la successiva assoluzione riscriverebbero la giurisprudenza sul tema.
“La Corte – recita ancora l’ordinanza - ritiene di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale nella parte in cui incrimina le condotte di aiuto al suicidio, a prescindere dal loro contributo alla determinazione o al rafforzamento del proposito suicidiario”.
Questo il profilo degno di maggior rilievo: a venire fuori dalla pronuncia è che al centro della questione si pone finalmente la persona umana, c’è Fabo con la sua volontà che, come dimostrato in dibattimento, ha “deciso in piena autonomia di porre termine alle sue sofferenze”.
Per i familiari e per Valeria, la fidanzata di Antoniani, questa pronuncia è una vittoria.
“Aiutare Fabo a morire era intanto un dovere per me – è il commento dell’esponente dei Radicali - La Corte costituzionale stabilirà se questo era anche un suo diritto oltre che un mio diritto”.
La questione giuridica tocca il tema delicatissimo del fine vita.
“Ideologizzare la materia e credere di risolvere i contrasti delegandone la soluzione al giudice penale, come si è fatto finora, è del tutto sbagliato. Non è questo l’approccio per affrontare situazioni di una simile importanza”, critico sul modus è l’avvocato Giuseppe Benedetto, penalista del Foro di Roma e Presidente della Fondazione Luigi Einaudi.
Un dato è certo, esiste un vuoto normativo.
È evidente che gli spazi lasciati in bianco dalla politica impongano la chiamata in causa, ogni giorno di più, dei giudici a dirimere questioni aperte.
Finora la scelta obbligata in casi come quello di Fabo è stata sperimentarsi nel tentativo di un’interpretazione che restringesse l’area del penalmente rilevante.
Sono però fattispecie che attengono alla sfera del privato, così fortemente da renderlo intimo.
Ciò stimola una contrapposizione nel Paese che ha radici antiche.
Il precedente più vicino è quello che determinò il Gup di Roma a pronunciare la sentenza di assoluzione dell’anestesista Mario Riccio imputato la morte di Welby che, oggi, sulla decisione del Collegio milanese parla di una “scelta gravosa ma coraggiosa”.
Piergiorgio Welby era affetto da un gravissimo stato morboso degenerativo, dal 1997, e viveva unicamente perché collegato a un respiratore automatico.
Al rifiuto dei medici, l’uomo si rivolgeva dapprima al Presidente della Repubblica e poi alla magistratura chiedendo con un ricorso d’urgenza il distacco del respiratore artificiale sotto sedazione. Il giudice civile dichiarava il ricorso inammissibile. In quella sentenza dava atto però del diritto soggettivo, sancito dalla Costituzione all’art. 32, nell’esercizio del quale è concesso a ciascuno di richiedere l’interruzione della terapia medica. Quel giudice asseriva, nel contempo, l’assenza nel sistema giuridico italiano di una normativa specifica sul fine vita in contesto clinico.
Welby, forte del suo diritto all’autodeterminazione trovava tuttavia nell’anestesista, finito sotto processo, la persona disponibile a dar seguito alla sua volontà di essere sedato e staccato dal respiratore artificiale.
La vicenda processuale terminava con il non luogo a procedere per il medico, ritenuto dal Tribunale di Roma non punibile per avere agito nell’adempimento di un dovere. Era il 23 luglio 2007.
Le stesse note dolorosissime le toccava di lì a poco, il 9 febbraio 2009, la morte di Eluana Englaro, avvenuta nel reparto di rianimazione della clinica “La Quiete” di Udine, dopo 17 anni di coma vegetativo.
Tre giorni dopo la sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiale che la tenevano in vita e dopo undici anni di processi in Italia e una sentenza della Corte Europea, Beppino Englaro riusciva a lasciar andare via il corpo della figlia.
La Cassazione civile nella sentenza del 16 ottobre 2007 tracciava i confini del diritto alla salute: “come tutti i diritti di libertà, implica la tutela del suo risvolto negativo: il diritto di perdere la salute, di ammalarsi, di non curarsi, di vivere le fasi finali della propria esistenza secondo canoni di dignità umana propri dell’interessato, finanche di lasciarsi morire”, fino ad affermare che le norme costituzionali sono il fondamento del “principio personalistico che anima la nostra Costituzione, la quale vede nella persona umana un valore etico in sé, vieta ogni strumentalizzazione della medesima per alcun fine eteronomo ed assorbente, concepisce l’intervento solidaristico e sociale in funzione della persona e del suo sviluppo e non viceversa, e guarda al limite del «rispetto della persona umana» in riferimento al singolo individuo, in qualsiasi momento della sua vita e nell’integralità della sua persona, in considerazione del fascio di convinzioni”.
Quei fatti, insomma, accendevano le coscienze di rinnovato interesse.
Qualcosa nel frattempo nel Paese si è mosso, anche nelle stanze dove si fanno le leggi.
Recentemente infatti il dibattito parlamentare si è concentrato sulla rinuncia e interruzione dei trattamenti sanitari e sulle disposizioni anticipate.
Ciò ha condotto alla approvazione della legge sul testamento biologico.
Un provvedimento normativo atteso così tanto da essere accolto con insoddisfazione, per le spinte cui non è riuscito a dar voce.
Da dicembre c’è dunque una legge dello Stato che consente a ognuno di noi di decidere sui trattamenti sanitari, anche in anticipo sulla eventuale malattia.
Non è permesso, però, il suicidio assistito.
Un passo avanti si è fatto certamente. La norma oggi dà a chi è in piena salute la possibilità di scegliere di smettere terapie, trattamenti e accanimento terapeutico, quando in salute non lo sarà più.
La legge ci lascia finalmente liberi anche di dichiarare il nostro orientamento sul fine vita, nel caso in cui sopravvenga una incapacità di intendere e di volere.
A guardarla senza interferenze di ordine religioso, etico, filosofico, rimanendo scevri da retaggi ideologici, è una legge di civiltà.
Il provvedimento, appena nato, prevede l'istituzione del Registro pubblico ove quelle volontà, espresse in forma autentica e che la legge chiama DAT – Disposizioni Anticipate di Testamento - possano essere raccolte.
Dal 31 gennaio a oggi gli enti locali cominciano a predisporre il Registro. In molti Comuni non si parte, però, perché si attendono le disposizioni attuative.
Ora, per tornare al caso di Marco Cappato e di Fabo, non resta che aspettare gli esiti delle valutazioni della Consulta.
È accaduto in passato che la Corte costituzionale travolgesse norme del codice Rocco che, lo ricordiamo, sono figlie di un regime, collocandosi il codice penale nel 1930 e rappresentando oggi per ciò stesso una stortura. Anzi la Consulta, dichiarando nell’anno 2000 l’illegittimità dell’articolo 402 del codice penale che contrastava con l’irrinunciabile principio di laicità dello Stato, definisce quelle diposizioni “un anacronismo, al quale in tutti questi anni avrebbe dovuto porre rimedio il legislatore repubblicano e laico – aggiungendo che - In mancanza dei necessari interventi correttivi da parte del Parlamento deve provvedere questa Corte, nell’esercizio dei suoi poteri di garanzia costituzionale".
In linea generale dunque i giuristi parlano di abolitio criminis, alludendo ai fenomeni di abrogazione o di dichiarazione d’illegittimità costituzionale di una norma penale “strettamente incriminatrice”, completa di precetto penale e sanzione.
Ma come funziona questo rinvio degli atti alla Consulta?
Partendo dal presupposto che la eccezione di legittimità costituzionale dà la possibilità di ottenere una decisione della Corte circa l'apparente contrasto di un determinato atto con la Costituzione, ritenuta intanto la rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione, potrebbe a ciò seguire una declaratoria di incostituzionalità. Quell’esito rappresenterebbe l’accoglimento dell’eccezione sollevata ieri e traghetterebbe, nel caso di Marco Cappato, la vicenda processuale verso la dichiarazione di non punibilità.
Il giudizio principale dunque resta sospeso fino alla pronuncia della Corte Costituzionale che, diversamente che nelle sentenze di rigetto, in caso di accoglimento spiegherebbe effetti non solo inter partes ma erga omnes.
Laddove, pertanto, l’art. 580 del codice penale – in quella parte sottoposta al vaglio di costituzionalità – dovesse essere ritenuta in contrasto con i principi della Carta, la conseguenza sarebbe importantissima. Ne deriverebbe, oltre alla assoluzione dell’imputato, una inevitabile spinta verso il rinnovamento nell’approccio a certe tematiche.
Ancora una volta per mano della giurisprudenza.
“La disobbedienza civile di Marco Cappato, ha fatto emergere situazioni di vita che riguardano tutti – dice Filomena Gallo, Segretario Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica – La Corte Di Assise di Milano, per la prima volta in Italia deve decidere se l’aiuto fornito da Marco Cappato a Dj Fabo configura un reato ai sensi dell’art. 580 cp, oppure no. Questa decisione determinerà un precedente giurisprudenziale importante in assenza di una legge, per tutte le persone che nelle condizioni di Fabiano desiderano accedere al suicidio assistito e non vogliono giuridicamente coinvolgere i propri cari o altri che potrebbero aiutarli in questo percorso che li porterà in Svizzera”.
E non possono che tornare in mente le parole dello stesso esponente dei Radicali rese a processo, nelle conclusioni del 17 gennaio “piuttosto che essere assolto per un aiuto giudicato irrilevante, mentre è stato determinante, preferirei essere condannato. Altro sarebbe essere assolto per incostituzionalità del reato. Perché altrimenti si accetterebbe che solo chi è in grado di raggiungere la Svizzera può essere libero di scegliere”.
(16 febbraio 2018)
L'originale è apparso sul numero di Micromega on line, reperibile al link che segue:
http://temi.repubblica.it/micromega-online/il-caso-cappato-alla-consulta-un%E2%80%99occasione-storica/
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