Alle porte il processo che vede alla sbarra 7 medici del reparto di ostetricia e ginecologia dell’ospedale Cannizzaro di Catania per la morte della donna, incinta alla 19esima settimana, il 16 ottobre 2016. La Procura ipotizza il reato di concorso in omicidio plurimo, ma in molti si chiedono se non si sia trattato di obiezione di coscienza.
di Maria Concetta Tringali
Era fissata per ieri mattina l’udienza preliminare davanti al Gup del Tribunale di Catania, Giuseppina Montuori, nel processo per la morte di Valentina Milluzzo avvenuta due anni fa, dopo diciassette giorni di ricovero. Insieme alla trentaduenne originaria di Palagonia morivano anche i due gemellini che portava in grembo. Un difetto di notifica ha determinato il rinvio dell’udienza di ieri
, al prossimo 13 novembre.
“Quello che ci aspettiamo è di avere giustizia e verità per la morte di Valentina. Siamo fiduciosi nel lavoro dei magistrati e del nostro avvocato. Chi ha sbagliato è giusto che paghi. Lei non c’è più e a noi sembra ancora di vivere un incubo”. Angela Maria Milluzzo, visibilmente scossa accanto al fratello, nei corridoi di Palazzo di Giustizia prova a raccontare: “a tre giorni dal ricovero mia sorella aveva già il sacco amniotico disceso in vagina e una dilatazione importante. I medici le raccomandarono solo di non alzarsi. Le sistemarono in alto le gambe, sollevando il letto in modo che lei rimanesse in quella posizione, immobile. La invitarono ad avere pazienza. La natura doveva fare il suo corso e bisognava aspettare, ci dissero. Andò avanti così. Ma lei stava sempre peggio. Poi la febbre, i sintomi dell’infezione, il passaggio al reparto di rianimazione. Tutto inutile”.
Il giudizio chiesto dalla Procura etnea accerterà le responsabilità. Tra gli imputati anche il primario del reparto, perché “in posizione di garanzia e con obblighi di controllo e vigilanza”. La famiglia è rappresentata dal legale di fiducia, l’avv. Salvatore Catania Milluzzo.
Il processo si concentrerà sulle condotte dei sanitari e dovrà far luce sulle omissioni. “Mia sorella è stata ignorata, per giorni”, continua Angela Maria.
Gli esiti dell’autopsia, disposta ed eseguita in incidente probatorio all’indomani dei fatti, dicono che Valentina è deceduta per “mancato tempestivo riconoscimento della sepsi; mancata instaurazione tempestiva di antibioticoterapia efficace; mancata raccolta di campioni per gli esami microbiologici; mancata tempestiva rimozione della fonte d’infezione (feti e placenta); mancata somministrazione di unità di emazie lavate durante l’intervento del 16 ottobre 2016”. Per dirla con parole più semplici, setticemia non diagnosticata né trattata.
Il dubbio che dietro a quelle condotte possa celarsi l’idea di preservare a tutti i costi il battito fetale, seppure a rischio della morte della madre, si insinua nella storia di Valentina sin dai giorni del ricovero. I familiari riferiscono nell’immediatezza di un medico che si sarebbe rifiutato di intervenire “perché uno dei cuoricini batteva ancora”.
Tutto intorno il dibattito non si placa. Del resto, a quarant’anni dalla 194, l’interruzione volontaria di gravidanza fa ancora i conti con una massiccia obiezione di coscienza, il che ostacola di fatto l’esercizio del diritto di aborto.
I dati resi pubblici a marzo di quest’anno ci consegnano un’Italia spaccata in due, da Nord a Sud. Nel 2014 il 70,7 per cento dei medici si dichiarava obiettore. La Sicilia, seconda solo al Molise, ne contava l’89,1 per cento. All’altro capo della classifica, la regione che ne registrava il numero più basso era l’Emilia Romagna, che si attestava al 53 per cento.
Ma questo in concreto che cosa significa? I numeri ci raccontano di donne in enorme difficoltà. E ciò non soltanto nei casi in cui la decisione di interrompere la gravidanza sia frutto di una libera scelta e pertanto compiuta nei 90 giorni dal concepimento, all’interno del tempo che la legge concede. Storie di malasanità troppo spesso dissimulano aborti terapeutici, ritardati fino alla morte della madre. Quelle tragedie si compiono per lo più in nome del feto, anche quando questo è di poche settimane e pertanto incapace di sopravvivere.
Sulla questione da sempre si scontrano da un lato i vari movimenti per la vita e il mondo cattolico in generale e dall’altro le femministe che si battono da anni per abolire l’obiezione nelle strutture pubbliche.
La necessità di una presa di posizione netta ce la spiega Elisabetta Canitano, ginecologa membro del comitato scientifico di Laiga, Libera Associazione italiana ginecologi per l’applicazione della legge 194/78.
“Da mesi stiamo portando in scena in tutto il paese uno spettacolo teatrale che vuole raccontare cosa sia l’obiezione di coscienza e come si possa morire per questo. Serve intanto a non fare spegnere i riflettori sulla storia di Valentina, ma non solo. Si intitola Io Obietto e racconta i lunghissimi diciassette giorni in ospedale della giovane donna, sulla cui morte per infezione e sulle cui urla di dolore e di strazio il sipario cala nell’ultima scena. Bisogna dirlo con chiarezza – continua la ginecologa che è anche presidente dell’associazione Vita di donna – che in presenza del sacco amniotico rotto prima delle 21 settimane di gestazione, stiamo parlando di feti che non hanno alcuna possibilità di sopravvivere. In nome di cosa allora si invoca l'obiezione di coscienza? Il battito cardiaco di un feto destinato comunque alla morte viene considerato più importante della vita della madre che lo porta in grembo?”.
Domande senza risposta, queste, che rimarranno fuori dal processo che deciderà sulla morte di Valentina. Ma domande tuttora aperte, ugualmente destinate a incidere chissà per quanto tempo ancora sulla carne delle donne.
(18 luglio 2018)
L'articolo è apparso su MicroMega. Troverete l'originale del pezzo al link che segue
http://temi.repubblica.it/micromega-online/la-morte-di-valentina-milluzzo-malasanita-o-obiezione-di-coscienza/
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