di Maria Concetta Tringali
È di qualche settimana fa la notizia che la Commissione regionale antimafia, istituita in Sicilia a febbraio e chiamata quest’anno a vigilare anche sulla corruzione, rassegna le conclusioni del lavoro svolto
finora.
Quel materiale è stato raccolto in un documento, “La verità nascosta - Le conclusioni del'Antimafia sul depistaggio Borsellino”, presentato in questo inizio di gennaio a Catania da Claudio Fava (che di quella Commissione è il presidente da maggio del 2018), insieme ai due consulenti Bruno Di Marco e Agatino Pappalardo.
Il luogo prescelto è un’antica libreria del centro storico, nei giorni che sono anche di commemorazione per il trentacinquesimo anniversario dell’assassinio di Pippo Fava, giornalista e fondatore de I Siciliani.
Al centro dell’incontro c’è quanto ricostruito dalla Commissione circa il rapporto tra mafia e politica, nelle sue ramificazioni e manifestazioni nel corso del tempo.
Si parla di stragi. L’autobomba esplosa in via D’Amelio – costata la vita il 19 luglio del 1992 al giudice Paolo Borsellino, oltre a quattro uomini e a una donna della sua scorta – è nervo scoperto in questo paese da troppo tempo. Molti processi e pochissime verità.
La relazione definisce con parole di piombo i fatti accaduti. “Mai una sola investigazione giudiziaria e processuale ha raccolto tante anomalie, irritualità e forzature, sul piano procedurale e sostanziale, come l’indagine sulla morte di Paolo Borsellino. Mai alla realizzazione di un depistaggio concorsero tante volontà, tante azioni, tante omissioni come in questo caso. Si può ragionevolmente concludere che la regia del depistaggio comincia ben prima che l’autobomba esploda”.
Ma perché chiudere quelle indagini così presto e tanto svogliatamente? – si chiede Fava.
E infatti una verità giudiziaria non c’è ancora. La sentenza della Corte d’Assise di Caltanissetta nell’aprile del 2017 – dopo la revisione dei precedenti processi – mette un punto, finalmente, con il Borsellino quater alla lunga vicenda. E accerta per prima – dopo la collaborazione di Gaspare Spatuzza del 2008 – che nell’attività investigativa su quell’attentato si consumò “uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana”.
Si appura che dovevano cercarsi i mandanti interni ed esterni di quella strage, ma che poco o nulla fu fatto come avrebbe dovuto essere.
Durante quel processo, inoltre, si verificano i profili di inattendibilità di Vincenzo Scarantino il quale confessa di avere reso dichiarazioni false. I giudici condannano all’ergastolo i boss Salvo Madonia e Vittorio Tutino e a dieci anni i falsi pentiti, Francesco Andriotta e Calogero Pulci.
Quella sentenza dice, in soldoni, che vanno cercati altrove uno o più suggeritori, artefici di un certo tipo di dichiarazioni. La Corte espressamente li definisce “gente di potere, in grado di determinare nel collaboratore di giustizia uno stato di soggezione”.
Ciò che emerge da quel provvedimento è un dato che poi la Commissione antimafia non si esime dal porre in primissimo piano: si tratta dell’area istituzionale a cui vanno iscritti gli autori di quei suggerimenti.
La storia processuale attende gli esiti del provvedimento assunto il 28 settembre scorso dal Gip di Caltanissetta il quale ha disposto il rinvio a giudizio del dirigente della Polizia di Stato Mario Bo, dell’agente Michele Ribaudo e dell’ispettore Fabrizio Matti, tre dei componenti dell’unità investigativa “Falcone Borsellino”, all’epoca guidata da Arnaldo La Barbera. Il reato è quello di calunnia aggravata dall’aver favorito Cosa Nostra. Sul ruolo di quel gruppo investigativo, come su quello del dottore La Barbera, morto nel 2002, la stessa Commissione si interroga.
Ma per tornare all’antimafia regionale, non si possono ripercorrere quei sei mesi di lavoro, senza dare atto delle audizioni. Centrale per l’input fornito è quella del 18 luglio, seduta nella viene ascoltata Fiammetta Borsellino che non ha mai smesso di chiedere conto di quell’eccidio.
Invitata dal presidente a raccogliere, in quella sede, preoccupazioni e richieste di approfondimento, la figlia del giudice fotografa il momento, senza nascondere la delusione provata all’indomani delle audizioni rese in Commissione nazionale antimafia e rivelatesi del tutto infruttuose. Domande, rimaste senza risposta.
Il cuore della vicenda resta quindi incollato a una parola che sembra la chiave per forzare il resto. Fiammetta Borsellino parla senza mezzi termini di depistaggio e lo colloca proprio a ridosso della strage: “un depistaggio iniziato nel 1992”, dice.
Molte le anomalie che il racconto e l’elaborazione di quei fatti a distanza di anni riescono a isolare. Altrettante pretese ingenuità vengono fuori, nella gestione di quei processi e soprattutto in quella del pentito Vincenzo Scarantino.
Anzi, ciò che colpisce non sono tanto le dichiarazioni del collaboratore e la loro riconosciuta falsità quanto piuttosto “l’apparizione del personaggio”; è l’irruzione di lui nelle indagini, così immediata, da servire a escludere che mandanti esterni andassero cercati al di fuori di Cosa Nostra. Questo il nodo centrale, all’esito dell’inchiesta condotta dalla Commissione regionale.
Non si legge tuttavia, nel report, solo di lui.
Quello è il focus, sicuramente. Ma ci sono molte altre perplessità che la Commissione finalmente sposa.
Che ci facevano sul luogo della strage e nell’immediatezza della deflagrazione uomini dei servizi segreti; che fine ha fatto l’agenda rossa del giudice; o, ancora, perché mai Borsellino non fu ascoltato a Caltanissetta da Tinebra e da quanti indagavano all’epoca sulla strage di Capaci, prima di quel tritolo?
E su quest’ultimo punto, le dichiarazioni in audizione già divergono. Davanti a chi rammenta di un incontro fissato per il giorno successivo a quel 19 luglio, c’è il maresciallo dei carabinieri Canale - il più stretto collaboratore del giudice Borsellino – il quale nega categoricamente una circostanza di questo genere, in una ricostruzione che la Commissione definisce netta. Quello stesso maresciallo – va precisato – veniva trasferito il 20 luglio e mai ascoltato durante le indagini successive.
Altro capitolo lo apre Pietro Grasso, chiamato ad esprimersi davanti alla Commissione insieme ai magistrati Paolo Giordano e Carmelo Petralia. Si tenta di spiegare la mancata acquisizione delle dichiarazioni del procuratore Giammanco – in aperto contrasto col giudice Borsellino – e insomma il perché, quello, mai fosse stato invitato a rendere interrogatorio dinanzi agli investigatori di Caltanissetta.
“Pochi e vaghi ricordi – la Commissione definisce così quelli di Giordano sull’argomento – Nessuna comprensibile giustificazione dell’omesso interrogatorio. Certamente un’occasione perduta sul piano investigativo”.
L’atto ci consegna un quadro più che inquietante, è chiaro. E lo fa anche laddove rileva una ingiustificata e illegittima interferenza del Sisde negli accertamenti all’indomani della strage. La legge, oggi come ieri, impedisce e fa divieto ai magistrati di delegare le indagini ai servizi segreti. La collaborazione tra la procura di Caltanissetta e il Sisde fu invece pressoché incontestabile. “Il primo contatto lo accende Tinebra – recita la relazione - con un’iniziativa personale sui generis (ma senza che alcuno tra i suoi pm, sollevi o registri obiezioni). Il giorno dopo la strage convoca Bruno Contrada, numero 3 del Sisde, e gli chiede di collaborare direttamente alle indagini con la procura di Caltanissetta”.
La Commissione conclude, dunque, ritenendo “certo il ruolo del Sisde nella manomissione immediata del luogo dell’esplosione e nella incursione nelle indagini”.
Sembra difficile propendere per altro che per il depistaggio, “ordito – come dice Fiammetta Borsellino – da vertici istituzionali e non da singole schegge deviate del sistema”. Ed è la gravità dell’espressione pronunciata dalla figlia del giudice a contenere l’enormità di fatti, come quelli sui quali ancora oggi ci interroghiamo.
Il documento parla di un rilevantissimo contributo di reticenza dato a garanzia del depistaggio, da uomini della magistratura, della polizia, delle istituzioni nelle loro funzioni apicali.
È stato lo Stato, insomma, in qualche misura.
Quelle conclusioni, davvero nettissime che oggi si trovano, finalmente, nero su bianco in un documento, ci si augura possano servire da pungolo per una nuova stagione di ricerca.
Perché – per dirla con gli ultimi passaggi di quel rapporto – “resta un vuoto di verità su chi ebbe la regia complessiva della strage e del suo successivo depistaggio. E quale sia stato, nel comportamento di molti, il labilissimo confine tra colpa e dolo, svogliatezza e intenzione, distrazione e complicità”.
(7 gennaio 2019)
L'originale dell'articolo è apparso su MicroMega ed è reperibile al link seguente
http://temi.repubblica.it/micromega-online/la-verita-nascosta-sulla-strage-di-via-d_amelio/
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