Approvato dal Consiglio dei Ministri il disegno di legge che si propone di dare priorità alle denunce di casi di violenze sulle donne. Un provvedimento che, oltre a ricalcare interventi previsti già dal 2013, non è affatto sufficiente a modificare il quadro allarmante disegnato da altri testi proposti dalla maggioranza, a partire dal ddl Pillon.
di Maria Concetta Tringali
A fronte del numero dei femminicidi che in questi undici mesi del 2018 ha superato quota cento – il che significa una donna uccisa per mano del partner o dell’ex ogni 72 ore - il Consiglio dei Ministri ha licenziato un provvedimento che introduce il cosiddetto Codice rosso. Quella tratteggiata si annuncia come una novità, ma in realtà non lo è del tutto. Il comunicato del governo fa leva principalmente sulla corsia privilegiata che il provvedimento riserverebbe alle denunce presentate dalle vittime di violenza domestica.
A ben vedere basta però tornare al 2013 per individuare, già nel decreto legge e nella relativa legge di conversione dettate per far fronte al fenomeno del femminicidio, una analoga previsione. I giudici da anni sono chiamati a dare precedenza alla trattazione dei delitti che attengono alla sfera della violenza di genere.
Ad ogni modo, il ddl approvato lo scorso 28 novembre si propone nelle intenzioni come misura in grado di dare una risposta al fenomeno che ha assunto – sotto gli occhi di tutti - proporzioni gigantesche. Il ventinovesimo Cdm, vede i Ministri indossare sul petto un vistoso fiocchetto rosso e annuncia, tra gli altri contenuti, l’istituzione di una cabina di regia interministeriale «per dare seguito in maniera organica agli interventi programmati». Che la percezione del fenomeno cominci ad uscire finalmente dal limbo in cui, in questo paese, rimane da sempre relegata l’emergenza? Vedremo, ma certamente non basteranno i proclami.
Il testo che giunge su proposta dei Ministri Alfonso Bonafede e Giulia Bongiorno interviene su più piani. Tocca il codice di procedura penale all’art. 347, ma non solo. Per i delitti di maltrattamento, violenza sessuale, atti persecutori e lesioni aggravate commessi in contesti familiari o nell'ambito di relazioni di convivenza, infatti, l’annunciato ddl introdurrà l’obbligo per la polizia giudiziaria di comunicare al pubblico ministero le notizie di reato. Lo schema precisa che dovrà darsi corso alle prescritte comunicazioni “senza ritardo” e si imporrà al magistrato di sentire la vittima entro i tre giorni successivi. Le indagini saranno trattate con priorità assoluta, senza margini di discrezionalità relativi alla sussistenza dei requisiti dell’urgenza. Gli operatori coinvolti, segnatamente Polizia di Stato, Carabinieri e Polizia Penitenziaria, saranno inoltre tenuti alla formazione obbligatoria.
La notizia arriva nella settimana che ha visto le donne invadere come marea umana la capitale ed annunciare “lo stato di agitazione permanente”. La grande manifestazione, svoltasi in occasione della giornata internazionale per l’eliminazione della violenza di genere, ha fatto da contraltare a quanto messo in scena dalle nostre istituzioni, impegnate nel consueto rito delle celebrazioni e dei buoni propositi.
Da Piazza della Repubblica si è snodato il lunghissimo corteo che ha seguito di due settimane quello contro il ddl Pillon, lanciato dalla rete antiviolenza e da DiRe. Tra loro, molte delle donne che il 25 novembre dello scorso anno avevano occupato Montecitorio. L’Aula era stata teatro, per volere dell’allora Presidente della Camera on. Laura Boldrini, di un incontro con oltre seicento vittime.
Ed eccole, dal vivo, quelle voci: «La fase politica attuale è segnata da un’avanzata autoritaria e reazionaria e dalla saldatura tra le politiche neoliberiste e l’ordine patriarcale e razzista». È il Report dell’Assemblea Nazionale di Non una di meno a chiarire gli obiettivi a medio termine: «A partire dal Piano Femminista costruiremo lo sciopero dell’8 marzo e daremo corpo e sostanza alle rivendicazioni e alle battaglie aperte contro il Ddl Pillon, il decreto Sicurezza, il reddito di cittadinanza, l’attacco all’aborto libero, sicuro e gratuito. Ci volete sottomesse, ricattate e sfruttate, noi scioperiamo!».
Ma le donne che hanno da poco sfilato per le strade di Roma, contro la linea politica espressa dalla maggioranza giallo verde, arrivavano in piazza non proprio impreparate. Si riversavano dietro i loro striscioni, infatti, dopo avere a lungo riflettuto. Nello scorso mese di ottobre, così, in molte si erano riunite a un tavolo per fare il punto sullo stato dell’arte. Ne era venuto fuori un Rapporto dal titolo eloquente“Attuazione della Convenzione di Istanbul in Italia. Rapporto delle associazioni di donne”. Il documento, per quanto si legge nel preambolo, è «frutto del lavoro di associazioni di donne e di professioniste che si sono unite per approfondire lo stato dell’applicazione della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica in Italia».
Alcuni nodi sono innegabili: «Nel loro percorso le donne trovano ancora troppi ostacoli sia con le forze dell’ordine, che con professionisti/e dell’ambito sociale e sanitario, dovuti a scarsa preparazione e formazione sul fenomeno della violenza, ma soprattutto al substrato culturale italiano, caratterizzato da profondi stereotipi sessisti e diseguaglianze tra i generi, oltre che pregiudizi nei confronti delle donne che denunciano».
«La politica – continua il documento - è permeata dalla stessa matrice culturale e soprattutto non ha voluto – indipendentemente dal “colore politico” – dare un forte segnale di potenziamento di tutti gli strumenti possibili per combattere la violenza contro le donne, supportandoli con i necessari finanziamenti e progetti economici a lungo termine. Troppo poco è stato fatto in tal senso».
Ed emerge chiaramente come scarsissimi siano i fondi stanziati per un programma nazionale di intervento che voglia dirsi serio ed efficace, risorse che le associazioni definiscono senza mezzi termini come irrisorie. Se non si investe in finanziamenti, non ci può aspettare un risultato.
L’effetto che ne deriva è «a “macchia di leopardo” sul territorio; una distanza enorme tra il dato declamatorio inserito nella cornice legislativa e il dato reale», continuano le associazioni.
«Normare è facile e poco costoso», si legge ancora in quel documento che ha i contorni di una fotografia: cultura sessista e misogina, precarietà di risorse assegnate a case rifugio e centri antiviolenza e un governo che «appena insediato oltre ad avere una rappresentanza femminile minima, ancora una volta non ha il Ministero per le Pari Opportunità».
La rete delle associazioni richiama peraltro con grande enfasi le prime iniziative normative su alcuni temi ritenuti fondamentali dalla Convenzione di Istanbul, quali migrazione e diritto di famiglia. E il quadro che si delinea è definito come molto preoccupante se solo si guarda ad altri testi licenziati da questa maggioranza. Si pensi al ddl Pillon – dai più ritenuto in questi mesi inemendabile e in chiara antitesi con le esigenze di salvaguardia delle donne e dei minori - e il decreto Salvini su sicurezza e immigrazione.
Non può rimanere, insomma, senza eco la preoccupazione di chi vede aprirsi dentro le stanze dei bottoni scenari da medioevo e pensa, ad esempio, alle attività preannunciate dall’intergruppo parlamentare “Famiglia e Vita” contro aborto, contraccezione e diritti civili delle famiglie arcobaleno.
L’idea che misure dal titolo altisonante come “Codice rosso” possano rivelarsi in grado di garantire piena tutela alle vittime della violenza di genere sembra destinata a scontrarsi con la realtà dei fatti, insomma.
Occorrerebbe piuttosto pensare a interventi organici volti a rendere omogenea l’attività di contrasto al fenomeno, tanto dal punto di vista della protezione della vittima quanto a quella della punizione del reo.
(29 novembre 2018) L'originale dell'articolo è apparso su MicroMega ed è reperibile al link seguente
http://temi.repubblica.it/micromega-online/un-codice-rosso-non-basta/?fbclid=IwAR1UJgZ_ZGx5pApaCpZ11HTfxj-GyvfoO2Vl190vNKYM3NIvTLAQv9UFRGE#.XAAdSKr1pbM.facebook
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